Laura Marzi, Domenico Motola. Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche. Università di Bologna
Il melanoma è un tumore maligno che colpisce prevalentemente la pelle. L’incidenza del melanoma varia tra i diversi paesi europei e mediamente si stima intorno ai 3,5 casi/100.000 uomini e 2,5 casi/100.000 donne ogni anno, mentre l’età media alla diagnosi è di 57 anni.
Attualmente sono disponibili diverse opzioni di trattamento per il melanoma cutaneo. La prima scelta applicabile nella fase iniziale della crescita tumorale è, in genere, la resezione chirurgica. La chemioterapia ha prodotto risultati deludenti per quanto riguarda la sopravvivenza complessiva, che è tuttavia migliorata con l’introduzione in terapia di immunomodulatori, come l’anticorpo monoclonale ipilimumab.
Sono state introdotte, successivamente, terapie mirate che consistono in farmaci diretti contro mutazioni specifiche nel DNA delle cellule tumorali. Ad esempio il vemurafenib agisce contro la mutazione a carico del gene BRAF V600 nei pazienti con melanoma avanzato portatori di tale mutazione. Il farmaco ha dimostrato migliore efficacia rispetto alla chemioterapia soprattutto in termini di sopravvivenza nonostante, a causa di meccanismi diversi, tra cui la riattivazione del gene mutato ad opera di mitogeni, si riscontri un alto rischio di resistenza e di insorgenza di tumori secondari.
Allo scopo di ridimensionare tali fenomeni sono state autorizzate altre strategie immunoterapiche, tra cui la terapia combinata di dabrafenib+trametinib. Il dabrafenib è un inibitore della proteina chinasi MEK (1 e 2), una delle chinasi attivate costitutivamente in caso di mutazioni oncogene di BRAF.
Data la repentina capacità di adattamento del melanoma alle terapie farmacologiche, la ricerca di nuove molecole antitumorali è in costante evoluzione. Risultati promettenti sono emersi dai recenti studi clinici condotti sui nuovi anticorpi monoclonali, quali pembrolizumab e nivolumab che agiscono da inibitori del recettore per la morte cellulare programmata di tipo 1.
Gli autori di un recente studio, pubblicato nella rivista Jama Oncology nel 2015 (1), hanno esaminato il database americano FAERS per mettere in luce le reazioni avverse a carico del rene che sono insorte nei soggetti esposti a vemurafenib e dabrafenib, tra Luglio 2011 e Giugno 2014. Le reazioni avverse che coinvolgono il rene rappresentano un rischio abbastanza allarmante.
- Nel periodo, infatti, sono stati segnalati 132 casi di danno renale acuto e 14 casi con disordini elettrolitici (6 di ipokaliemia e 8 di iponatremia) da vemurafenib. I casi di danno renale provenivano prevalentemente da Francia, USA e Germania e i soggetti coinvolti erano maggiormente maschi affetti da melanoma (età media 65 anni).
- Per il dabrafenib sono stati segnalati 13 casi di danno renale acuto, di cui 12 in pazienti maschi (età media 55 anni), e 8 casi di disordini elettrolitici (2 di ipokaliemia e 6 di iponatremia).
Si pensa che il danno d’organo coinvolga principalmente il tubulo interstiziale, tuttavia è necessario effettuare una biopsia renale per indagare il meccanismo d’azione alla base della tossicità.
La terapia con vemurafenib e dabrafenib ha dimostrato risultati soddisfacenti in termini di sopravvivenza nei pazienti affetti da melanoma metastatico con mutazione genica del BRAF600.
Tuttavia, alla luce delle evidenze emerse nella reale pratica clinica, gli autori concludono sottolineando la necessità di monitorare la funzionalità renale ed i livelli di elettroliti in tutti i pazienti che ricevono questa terapia.
Bibliografia
- Jhaveri KD, et al. Nephrotoxicity of the BRAF Inhibitors Vemurafenib and Dabrafenib. JAMA Oncol 2015; 1: 1133-4.